Questo blog esce dal letargo per qualche commento sulle primarie del PD. Comincio col dire che, a parte un quantitativamente modesto sostegno alla mozione Marino, ho seguito la campagna poco e di traverso, tra mille altre cose. Sono impressioni soprattutto, più che una ponderata analisi, che svolgo nell’ordine dei candidati.
Bersani è il candidato dell’apparato e del radicamento. La mia formazione politica è stata tutta nei territori e nell’apparato, quindi lungi da me usare queste parole in senso dispregiativo. Ciò che la candidatura di Bersani ha fatto emergere in maniera chiara è la fallacia di uno dei luoghi comuni più abusati a partire dalla fine degli anni ottanta, quello dello “scollamento della politica (o della sinistra, a piacere) dalla gente.” La candidatura Bersani dimostra che non è vero, che in una parte consistente del paese non c’è affatto lo scollamento. In Toscana, in Emilia, nelle Marche, in Campania, in Calabria, in Puglia, il centrosinistra è incollatissimo al territorio, e non si può liquidare questo fatto come semplice adesione ai modelli culturali che si trovano – diversissimi – nelle regioni citate. Si tratta della convinzione che la politica deve avere come primo punto di riferimento l’onda della società, là dove si trova la società nel presente. In parte, è politica come amministrazione, ottima o pessima amministrazione a seconda del capitale umano a disposizione. Ma è anche una profonda consapevolezza della stabilità dei sistemi sociali, che non sono solo sistemi di potere, ma in essi si coagulano. Nella sua verisone migliore, questo argomento suggerisce che il cambiamento deve avvenire senza scosse eccessive, perchè altrimenti risulta evanescente. Nella versione peggiore, questo argomento impedisce in nuce qualsiasi cambiamento. Bersani incarna la parte migliore, naturalmente. Il leader di un progetto non è un dettaglio, ma informa il progetto stesso. Bersani si propone senza slanci, dunque, ma con grande fermezza. A me ha colpito molto quando, dalle Iene, ha descritto uno dei suoi competitori come troppo ambizioso, più ambizioso di se stesso. La mia opinione è che l’eccesso di ambizione sia uno di quei difetti che diventano pregi se ad averli è un politico. Immaginate Sarkozy, Blair, Obama, Putin, o Berlusconi riconoscere che qualcun’altro sia più ambizioso di loro stessi? In fondo, l’ambizione quasi irrazionale era una delle caratteristiche personali che hanno alimentato il fascino pubblico sia di D’Alema che di Veltroni. Avere un leader non ambizioso, o ragionevolmente ambizioso, è una scelta di difesa, e Bersani stesso mi sembra consapevole di ciò quando, ad una domanda sul futuro, si è augurato che il prossimo Presidente del Consiglio sia il leader di una coalizione alternativa al centrodestra. Un leader, non sé medesimo.
La lettura di Franceschini come eterno vice di una stagione sconfitta, e quindi leader improbabile, è propagandistica e come tale va trattata. La candidatura di Franceschini senza dubbio è in continuità con il disegno politico che era stato espresso non solo da Veltroni, ma dalla nutrita schiera di politici e intellettuali che avevano contribuito a costruire la fondazione del PD, che, ricordiamolo, prese un 33 per cento che a tutti oggi pare utopistico. Nella campagna sta dimostrando una inaspettata grinta, una buonissima capacità comunicativa, ed anche la capacità di seguire disciplinatamente il suo staff, mentre troppo spesso in Italia lo staff passa il tempo a rattoppare buche aperte dal leader di turno. In questo è molto moderno, ed affianca alla sua modernità la solidità mista a spregiudicatezza degli esponenti di punta della sua mozione. La Serracchiani è stata criticata come esempio negativo di un rinnovamento simbolico ed evanescente, salvo che in Friuli non ha solo preso una caterva di voti tra gli elettori, ma anche nel corpo degli iscritti. La tensione alla modernità, e il modo in cui Franceschini affronta di petto temi controversi e decisivi, il rischio positivo nell’usare strumenti comunicativi con audacia, si scontra tuttavia con lo stesso limite che espresse Veltroni: manca la sostanza, e mancano i protagonisti. Nel momento in cui il rinnovamento è solo cooptato, se serve sempre il timbro di affidabilità di clan per rappresentare il nuovo, la cosiddetta vocazione maggioritaria diventa una chimera, oltre che una locuzione incomprensibile a tutte le persone in buona fede. Si tratta appunto di una locuzione roboante ma non impegnativa al tempo stesso, e quindi incapace di allargare il consenso di un partito. Significativo a questo proposito l’impegno di Franceschini, durante il confronto su Youdem, di selezionare “una parte” dei dirigenti di partito sulla base delle competenze e dei curriculum. Questo suggerisce che il modo in cui finora si è proceduto prescindeva completamente da competenze e curriculum, principalmente perchè, come dimostrò abbondantemente il caso Tinagli, delle competenze non si sapeva, veramente, cosa farne. La seconda cosa che suggerisce quella frase è una concezione astratta dell’importanza delle competenze e del merito, che non necessariamente sono la stessa cosa, e che non si possono applicare alla politica in maniera meccanica. Le competenze, come ogni caratteristica professionale positiva (impegno, dedizione, serietà, lealtà), dovrebbero entrare in politica in maniera naturale, trovando il contrappeso nel prezzo pagato da leader che le ignorassero a vantaggio della pura fedeltà al capo. Su questo punto nodale, nè Franceschini nè Bersani possono o vogliono dir niente. Anzi, la fretta con la quale erano disposti a cambiar le regole per l’elezione del segretario, con una telefonata a tre facilitata da Scalfari, spiega bene che la loro idea di uomini politici rimane slegata da qualsiasi responsabilità personale sui risultati, in linea con la tradizione italiana di cui sono espressione.
Marino è il terzo candidato, a cui è andato il mio modesto sostegno, mi auguro tuttavia che questo non sia sufficente ad offuscare le mie capacità critiche. Penso che la sua candidatura sia stata importante per aggiungere credibilità al partito democratico, per offrire un veicolo di partecipazione – che non fosse di sola testimonianza – a chi volesse partecipare. La sua mozione è stata la prima importante palestra in cui si sono misurate migliaia di persone che avevano voglia, appunto, di imparare come si fa a far politica: si tratta di uno straordinario investimento sul futuro, oltre che il frutto della necessità immediata per un buon risultato. Rispetto agli altri due candidati, le basi della campagna di Marino sono piuttosto eterogenee, legate sia a politici di lungo corso come Bettini e Meta, che alla nuova generazione dei Civati – giovani politici con l’ambizione di farcela con le loro gambe, senza padrinati pesanti, ma anche con ragionevolezza e serietà. Questa combinazione ha dato molto fiato alla candidatura, e ai temi che ha proposto: chiari, netti, radicali, molto più comprensibili del passato per strati della popolazione che il centrosinsitra fatica a conquistare: il nord, i giovani, le professioni moderne. La candidatura Marino ha avuto due limiti principali, uno strettamente politico, l’altro anche di impostazione comunicativa. Il primo è stato quello di non riuscire a dialogare in profondità con individui che sarebbero dovuti esser della partita, e questo sia per limiti di leadership, che a causa della tipica diffidenza italiana (e della sinistra) per persone nuove – ancorchè credibili. Il fatto che esista un movimento di non-allineati come Renzi, Chiamparino e Cacciari è soprattutto una sconfitta per Marino. Il secondo limite riguarda l’impostazione della campagna alla segreteria. Dopo il round nei circoli, si è aperta la partita sulle primarie che, verosimilmente, si può discostare significativamente dal risultato nei circoli, ma non ribaltarlo completamente. Marino ha limitato la parte “negativa” della sua campagna, di attacco agli altri candidati, e questo è stato sensato dato che il sistema italiano prevederà comunque un lavoro comune nei prossimi anni. Marino non poteva attaccare troppo, ma comunque è stato presentato dalla stampa come “terzo” uomo, non in corsa per una realistica vittoria, ma possibile ago della bilancia, ed ha finito per subire questa nomea e non controllarla più. In altre parole, il dominio del “voto utile” penso sarà ancora una caratteristica di queste primarie in cui molti non voteranno Marino proprio per le sue scarse possibilità di vittoria. L’obiettivo di “ago della bilancia”, invece, andava esplicitato. Sia per una questione di sostanza, che di trasparenza, e poteva esser fatto rafforzando sia la credibilità del candidato, che la forza del partito. In Italia esistono dei temi che sono rappresentati da una minoranza di persone, che non sono in pensione, che non sono parte di circoli consolidati, che spesso sono di generazioni più giovani e che, in larga misura, costituiscono l’ossatura del sistema produttivo e creativo del paese. La mozione Marino, nel veicolare questa idea di futuro nel PD, avrebbe potuto avere una maggiore ambizione egemonica. Dare a quelle idee una forza più che proporzionale rispetto agli attuali rapporti di forza politico sociali, poteva essere una missione esplicitata con maggior forza da Marino, il che avrebbe aumentato le sue potenzialità, ed anche accresciuto la sua statura di leader.
Nel complesso è difficile non scorgere complementarietà tra questi tre candidati, e non osservare ancora una volta come, a differenza del centrodestra, il centrosinistra ha una grande difficoltà a trovare una sintesi tra le differenze territoriali e sociali che compongono l’Italia. Il nostro è un pase nel quale la globalizzazione, con i sui effetti di frammentazione, è intervenuta in un sostrato già molto diviso. Senza una narrativa nazionale molto forte, unificante, è impossibile vincere le elezioni e diventare maggioranza. Allo stato dei fatti, sembra molto improbabile che tale narrativa possa venire dal Partito democratico che subisce le tante differenze dell’Italia, senza governarle.
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