Srebenica per non dimenticare – Il sangue verde – Srebenica – 1 parte

È verde la Bosnia. Quando percorri la strada da Tuzla a Potocari, dove si trova il memoriale di Srebenica, non puoi credere a quello che vedi: una bellezza e una varietà di paesaggi che non ti aspetti. A volte sembra di percorrere l’Aurelia costeggiata dalle colline toscane, ma quando sali di altitudine la macchia si infittisce, regalandoti una visione da paesaggio pre-alpino
La macchina entra arrogante in un tunnel senza luci. All’uscita il primo sole del mattino ci acceca per pochi secondi, per poi regalarci la bellissima visione della Drina, il fiume che separa la Bosnia dalla Serbia. Sembra un lago senza fine, la Drina al mattino, con l’altra sponda nascosta dalla nebbia, che rende l’atmosfera più inquietante come una musica che introduce una scena tragica. I cartelli stradali diventano solamente in cirillico: siamo infatti entrati nella repubblica Srpska, l’entità serba della Bosnia-Erzegovina. La maggioranza è serba (88%), che vuole la secessione da uno stato che non riconosce.
Le macchine dei diplomatici e dei politici sfrecciano accanto a noi, mentre siamo in fila da ore. Famiglie intere, sedute fuori le loro case simili a baite alpine, guardano la processione di macchine, un evento molto raro in quelle zone a bassissima densità.
I poliziotti, a decine lungo la strada, aumentano man mano ci avviciniamo alla meta. Marcano il territorio, come fanno i cani quando si sentono attaccati.
Un campo di granturco diventa un parcheggio improvvisato dove lasciare la macchina esausta.
Il sole accompagna la nostra marcia verso la fabbrica di Potocari. Un chiosco di bibite è letteralmente preso d’assalto. Sarà un giorno speciale per il proprietario.
I gruppi di persone, simili a piccoli torrenti, si uniscono per formare un largo e lento fiume umano, largo quanto la Drina vista al mattino. Molte donne hanno un velo bianco, simbolo del lutto. Ma il bianco è anche espressione di purezza e innocenza, totalmente estranee a questo luogo.
Mentre ci avviciniamo ai lati della strada troviamo mamme o con in braccio i loro figli, mutilati dalla guerra o dalle mine, anziane in ginocchio che cantano nenie incomprensibili. Tutti che chiedono un piccolo aiuto, abbandonati dalla povertà dello Stato.  Una sorta di Via Crucis del cuore, sempre più straziante a ogni stazione.
Un edificio alto e grigio interrompe l’orizzonte verde, fatto di alberi e colline.
E’ la fabbrica degli accumulatori, da dove è partito il genocidio di Srebenica.
La “fabbrica degli orrori” è diventata un museo per la memoria. L’odore di umido è acre e pungente, ti entra nelle narici e colpisce duro allo stomaco. Quando passeggi, vedendo foto, leggendo racconti, osservando video, la nausea aumenta, fai fatica a respirare e ti assale il desiderio di scappare via il più lontano possibile. Ma non puoi fuggire, devi capire cosa è successo, come è stato possibile, come mai non è stato fermato. Ti fai forza e cominci a leggere la storia, pannello dopo pannello, con l’orrore che ti accompagna sempre di più, compagno non voluto e difficile da scacciare.
Quello che leggi è successo esattamente in quel posto, puoi alzare gli occhi e immaginarti tutta la scena, nei più minimi e scabrosi dettagli.
Puoi vedere i numerosi camion che si muovevano nel cortile della fabbrica quel primo pomeriggio dell’11 Luglio 1995.  Camion pieni di anziani, uomini, donne e bambini. Sono stati presi a Srebenica, distante pochi km, dalle truppe paramilitari serbe comandate da Mladic. Molti vestivano la divisa delle truppe ONU olandesi che avevano il quartiere generale nella fabbrica di Potocari.
Non hanno trovato resistenza, quella zona era protetta dall’ONU e i profughi, accorsi in migliaia a Srebenica, si sentivano al sicuro. I bosniaci affamati guardavano quelle truppe coi loro giubbotti antiproiettili, i caschi blu e i blindati, come protettori, garanti della loro vita e della loro sopravvivenza.
Puoi vedere le truppe di Mladic che separano migliaia di donne e bambini dagli uomini, dividendoli per sempre. Le donne più giovani sono portate all’interno, dove tuttora è intatta la ‘infertivno dom’, stanza dell’inseminazione. Qui sono state stuprate selvaggiamente, con una metodologia crudelmente perfetta, come testimoniano le scritte che sui muri celebrano ora e protagonisti di ogni stupro.
Puoi vedere i camion pieni di uomini portati nei boschi, uno dopo l’altro, per essere massacrati freddamente, con una scientificità tale da far impallidire ogni mente razionale: prelevare un uomo alla volta, portarlo in mezzo ai boschi e sparare alla testa. Il silenzio di queste operazioni viene interrotto solamente dalla richiesta dei carnefici alle vittime di guardare per terra, unico modo per resistere psicologicamente allo stress omicida. Devi morire senza poter utilizzare l’unica arma che ti rimane: il potere degli occhi, di uno sguardo che ti perseguiterà tutta la vita. Non gli è concesso nemmeno quello.
Su un pannello si trova la dichiarazione di uno dei boia: “Non riuscivo più a premere il grilletto, avevo l’indice informicolato da quanto avevo sparato. Andavo avanti ad ammazzarli per ore”.
Dichiarò inoltre che qualcuno aveva promesso loro 5 marchi per ogni musulmano ucciso quel giorno. Poco più di due euro, questo il valore di una vita. Disse che costrinsero anche gli autisti a scendere e ammazzare almeno un paio di musulmani, in modo da assicurarsi il loro silenzio.
Non puoi distinguere i bosniaci musulmani dai serbi e dai croati. Sono tutti slavi del sud di pelle bianca. Parlano la stessa identica lingua, sono stati compagni di scuola. Gli autori del massacro sono serbi locali, che magari avevano condiviso un pasto o una bevuta con le vittime. Magari ora lavorano sul territorio e li puoi vedere con una divisa da poliziotto, dietro uno sportello bancario, radicati dentro le istituzioni. E’ ancora tutto troppo fresco per dimenticare.
Il massacro di Srebenica è durato cinque giorni, ci vuole tempo per uccidere 10000 (e più) persone. Tutti maschi, come vuole la regola della pulizia etnica.
La fabbrica di Potocari è stata la base di queste operazioni, testimone diretto del terribile silenzio dei caschi blu olandesi.
Se chiudi gli occhi puoi vedere le mutilazioni, le esecuzioni, gli stupri. Puoi sentire le urla, le preghiere, gli appelli per un aiuto mai arrivato.
Se apri gli occhi puoi ancora vedere le scritte sui muri della fabbrica, fatte da ragazzi olandesi che avevano molto spesso la stessa età delle vittime:
Uccidere è il mio affare e gli affari sono una buona cosa” oppure ” Ha i baffi, puzza di merda, ragazza bosniaca”. Un disprezzo verso i bosniaci che non ha ragione di esistere.
Puoi ancora vedere intere stanze dipinte di un rosso scuro: è il sangue rappreso dei torturati, appesi a dei ganci ancora visibili. Non c’è traccia dell’intonaco bianco, un brivido freddo sale lungo la schiena.
Tutto questo è stato documentato dai serbi-bosniaci in una sorta di autocelebrazione morbosa, convinti che si avvicinasse il tempo per la fondazione della Repubblica Spska. Lo testimonia anche il modo approssimativo di fare le fosse comuni, convinti che quel territorio sarebbe appartenuto presto a loro. Una vangata di terra e via, pronti per nuove esecuzioni.
Quando il 21 Luglio il contingente ONU lascia Potocari ci sono i brindisi d’addio con i serbi. Non riesco a capire.O forse non c’è niente da capire. La sopravvivenza degli olandesi barattata con il silenzio e la complicità. L’istinto di sopravvivenza che scatta quando siamo in pericolo, il disinteresse verso la sorte degli altri, l’egoismo di voler vivere a tutti i costi, non sono forse sentimenti umani?
Secondo la definizione adottata dall’ONU costituiscono “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
La stessa ONU che è rimasta passiva (o complice?) di fronte a un genocidio avvenuto solamente quindici anni fa, mentre a poche centinaia di chilometri c’è il Mar Adriatico e l’Italia, dove probabilmente molti bagnanti si godevano le ferie al sole.
E’ verde la Bosnia, ma non la fabbrica di Potocari. Lì il verde, colore della speranza, si è spento in una calda giornata d’estate di quindici anni fa. Lì il verde si è trasformato in rosso.


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