Srebenica per non dimenticare – 11/07/10 – 2° parte – Che è la libertà se i prati dei nostri cimiteri si protraggono oltre l’infinito del cielo?

C’è una collinetta accanto alla fabbrica degli orrori. Ospita il Centro Memoriale di Potocari. Oggi, 11 Luglio, è pieno di persone, decine di migliaia, una massa sfuocata sempre in movimento. Ma più ti avvicini più cominci a notare i dettagli. Innumerevoli colonne di marmo segnano il territorio. Sono i morti di Srebenica, almeno quelli riconosciuti. Siamo arrivati a più di seimila, ne mancano quasi altrettanti.
Quest’anno saranno 775 i corpi da seppellire, seguendo i riti del funerale religioso islamico.
Ce ne sono molti altri in attesa di essere inumati, negli obitori improvvisati di Tuzla, dove prima si teneva la carne da macellare. Ci vuole il riconoscimento del 75% del corpo prima di poter riconoscere la sepoltura.
Ma non è facile dare serenità alle migliaia di famiglie che aspettano di cdi morte hiudere un capitolo tragico della loro vita, perchè non è così semplice poter riconoscere i corpi. I paramilitari serbi su questo non hanno fatto un lavoro scientifico. Le fosse comuni erano veramente improvvisate, fatte in fretta, un filo di terra e via. C’erano troppe persone da uccidere e così poco tempo.
Convinti che a breve quel terreno pieno di morte sarebbe stato parte della Grande Serbia, non si prodigarono per occultare i cadaveri. Ma non andò così e mentre le milizie serbe si ritiravano, le loro ruspe trasportavano i cadaveri sempre più vicino al confine serbo, grossolano tentativo per coprire qualcosa impossibile da nascondere.I corpi erano ormai in decomposizione e la fretta di nascondere un orribile massacro ha fatto perdere la lucida scientificità che aveva contraddistinto le azioni dei militari, portando a una dispersione dei resti. Un braccio in una fossa, una gamba in un’altra, la testa caduta durante il trasporto.
Durante le battaglie dell’antica Grecia e dell’antica Roma si chiedeva spesso una tregua per recuperare i cadaveri e onorare la loro memoria. Adesso non c’è più nè rispetto nè onore, mettendo in crisi il dogma dell’evoluzione dell’uomo.
C’è sempre da imparare dalla storia. La memoria è essenziale per non ripetere gli stessi errori, una lezione così semplice da capire che  non è tollerabile l’ignoranza.

È caldo a Potocari, la nuova Auschwitz  Il sole picchia forte come undici anni fa.
Un ombrello aperto rappresenta l’unico modo per avere un sollievo momentaneo.
Nel memoriale accanto alle fredde colonne di marmo si possono trovare delle stecche di legno verde. Qui verranno inumate le nuove bare, in una fossa già scavata e sorvegliata dai parenti della vittima, arrivate nel mattino o addirittura nella serata di ieri. Attendono al sole, senza lacrime, quelle sono finite quindici anni fa. Un’attesa minima, quasi piacevole, che termina un lamento continuo durato troppo a lungo. Il dolore non potrà mai finire, ma almeno c’è un luogo dove poter andare a incontrare il fratello, il padre, il figlio perduto.

C’è un qualcosa di frenetico, un muoversi a migliaia senza urtarsi, senza concitazione, senza una parola o un gesto fuori posto. Un dolore così straziante vissuto con così forte dignità. Vita e morte fusi insieme, in un clima surreale fuori dallo spazio e dal tempo. Per spostarsi passiamo obbligatoriamente in mezzo alle colonne bianche, ma non c’è tempo per il rispetto dei defunti e per riflettere.
Le teste finiscono lasciando lo spazio a un’area che ospita le 775 bare coperte da un telo verde. Troppo piccole per contenere un corpo completo, uno scheletro intatto. 15 anni sono molti anche di fronte all’eternità della morte. Ogni bara ha un numero e un nome, fondamentali per essere identificati ed essere sepolti nel posto giusto, una beffa possibile dato l’enorme numero.
Il passaggio tra le bare verdi ti costringe a immaginare l’istante della morte, la fine della vita di quel numero/uomo. Bum, un colpo alla testa. Fai un passo, il piede si avvicina a un’altra bara. Leggi un altro nome.  Bum, un altro colpo alla testa. Un altro passo, un altro nome, un altro colpo. Così per altre 772 volte. Un pensiero impossibile da sostenere con lucidità, che mette alla prova la mente più fredda e razionale. Immaginatevi di moltiplicarlo per 10, arrivare a rappresentare lo sterminio di più di 10mila persone. Un brivido freddo sale dopo poco. No, non è possibile. È una violenza anche solo immaginarlo.

Con sollievo i pensieri vengono brutalmente stoppati quando inizia la passerella della politica. Quest’anno ha suscitato grande scalpore la presenza, per la prima volta, del presidente serbo. Il 31 marzo scorso, tra mille polemiche, il parlamento serbo ha approvato una delibera nella quale condanna l’eccidio di Srebrenica. Non lo chiama genocidio, ma massacro.
Sono in molti quelli che temono contestazioni che possono portare a conseguenze impossibili da prevdere e il protocollo della cerimonia decide di non decidere: alla fine il presidente serbo non parlerà.
Il vento del pomeriggio si solleva, facendo muovere gli alberi. Appare un cartellone, un manifesto bianco difficile da notare prima, nascosto tra i rami. C’è sopra una semplicissima equazione: serbia = genocidio. Sintetizza il pensiero dei bosniaci musulmani, che chiedono giustizia, chiedono che vengano perseguiti i responsabili del massacro, ancora latitanti. Non chiedono nè l’amnesia, nè l’amnistia, ma chiedono giustizia per poter ancora convivere con i propri carnefici.
Nella Repubblica Srpska, dove si trova Srebenica,  i poliziotti, i dipendenti pubblici, i dirigenti e tutto il potere amministrativo sono in maggioranza serbo-bosniaci. Può ancora capitare che un carnefice responsabile dell’omicidio di tuo padre, fratello, figlio;colpevole di sevizie e stupri contro le donne, sia il poliziotto che al momento ti sta commissionando una multa, il dipendente delle poste che ti accetta una lettera, l’impiegato che ti certifica un documento.
Ma non c’è più vendetta, solo voglia di giustizia e onestà. Una lezione da esportare, un sublime esempio difficile da replicare in altre zone calde del globo. Il perdono al servizio della collettività, per riuscire finalmente ad andare oltre, l’unica via per non causare altro male e altre violenze. Mai più un’altra Srebenica.

Risuonano come una cantilena noiosa e già sentita le parole dei delegati politici:”Srebrenica e’ l’insuccesso della Nato, dell’Occidente e delle forze di pace dell’Onu”,”la tragedia di Srebrenica pesera’ sempre sulla storia delle Nazioni Unite”, “una delle pagine piu’ oscure della storia europea”, “una vera vergogna per la comunita’ internazionale: l’aver permesso che questo male accadesse davanti ai nostri occhi” .
Troppo facile condannare ora.

Nel primo pomeriggio nella collina che ospita il memoriale non si vede più un lembo di terra, ma solo persone. Sono tante le giovani musulmane con il velo. Segno che la religione musulmana riesce ad affascinare anche le nuove generazioni.
Inizia la funzione religiosa e si può rimanere soltanto stupiti di fronte a una tradizione millenaria che non hai mai osservato da vicino. I gesti, le movenze della mano, le parole ripetute ossessivamente. Migliaia di persone che si piegano all’unisono, per poi rialzarsi dopo le parole dell’imam. Un affascinante rituale che assomiglia molto alle funzioni che si possono vedere la domenica mattina in una chiesa. Niente di tremendamente diverso. In effetti non scordiamoci che pregano lo stesso Dio.

Le scarpe sono nel fango, il sole non dà tregua.  Accanto a me un bosniaco senza gambe osserva la funzione, senza poter partecipare. Sarà stata una mina la causa della sua invalidità? Ma le parole sono finite e iniziano le lacrime e la disperazione.
Non si cancellano i sentimenti e le famiglie, fino a quel momento dignitosamente scomposte, si lasciano andare a urla e singhiozzi. Qualcuna sviene, complice il grande caldo. Le famiglie si stringono. Macchine fotografiche e telecamere riprendono impietosamente queste scene tragiche. Che lavoro da insensibile quello del fotografo, entrare così prepotentemente nelle disgrazie degli altri, senza pietà. Ma non c’è rabbia per quella visita non voluta nelle donne e negli uomini accanto alle tombe aperte, si ripiegano nel loro dolore, non curandosi delle centinaia di migliaia di persone che li circondano.

Entrano in scena le bare, una per una verranno sollevate una per una nel corso della cerimonia , passate, spinte, trasportate senza sforzo da decine di mani fino alle nuove fosse scavate nel grande prato. In effetti è la vita che è pesante, la morte è leggera, un soffio.
Si forma un lungo serpente verde dalle molte diramazioni, una novella  Medusa senza testa carica di dolore, rassegnazione e tormento, che si scompone e si ricompone nel momento in cui alcune bare vengono inumate e nuove vengono sollevate da terra, in attesa di essere trasportate nel luogo dove giaceranno per sempre.

Spuntano le pale e le vanghe, validi strumenti che serviranno agli uomini per coprire i corpi, utilizzando la terra mischiata a fango preparata precedentemente.
Nella collina del memoriale il “mostro” verde continua a crescere e diramarsi, senza mai vederne la fine.
Al microfono vengono scanditi i nomi delle vittime. Gli speaker fanno cambi tra di loro, affaticati nel ripetere questo lungo elenco di vite spezzate.
È difficile passare in mezzo al tentacolo della Medusa, costretto a subire la marea di forti emozioni che aleggia nella zona, ma è meglio lasciare finalmente le famiglie al loro dolore interno, lontani dalle luci delle telecamere e dei fotografi e dagli sguardi di estranei indiscreti.

Si dice che chi è sopravvissuto alla strage di Srebrenica, porta negli occhi il dolore immenso e la paura vissuta in quei giorni. In minor modo chi ha partecipato al memoriale si porterà nel cuore il turbamento e la commozione provata in quei momenti.

Da quindici anni in questo angolo di Balcani non riecheggiano più i colpi di mortaio, eppure l’odio prosegue strisciante. A pochi km di distanza da Potocari, in Serbia, qualcuno festeggia la liberazione di Srebenica.
In hotel si lavano le scarpe sporche del fango. La terra viene via facilmente davanti al getto dell’acqua. Non sarà  lo stesso facile scrostarsi quello che si è vissuto durante la giornata. Le emozioni più forti sono quelle più difficili da scordare.
Sicuramente a casa i problemi quotidiani sembreranno più piccoli. A casa si apprezzerà molto di più qualcosa che davamo per scontato: la libertà, messa splendidamente in poesia dalla grande scrittice Elvira Mujcic, fuggita da Srebenica:
“La libertà” di e. Mujcic
La terra fatta di sangue scorreva sotto i miei piedi
La mia gente fatta di dolore sfilava davanti ai miei occhi
Nel silenzio della disperazione sentivo le risate dei bambini, o forse era la mia infanzia che mi inseguiva ridendo?
La miseria della città distrutta era enorme quanto quella della mia vita
L’immensità delle tombe finiva là, in un punto dell’orizzonte, dove Dio accarezzava il mondo.
Disperatamente vi cercavo intorno ai palazzi bruciati;
inutilmente mi aggiravo tra le macerie della città per salvare le vostre vite.
Illusa!
Volevo vedervi correndo per le strade ferite.
E’ questo il prezzo per vedere il nostro cielo libero.
Ma che è la libertà se le tenebre della morte
sono più scure delle notti invernali?
Se siamo tutti un po’ orfani, un po’ vedove e un po’ morti?
Che è la libertà se i prati dei nostri cimiteri
si protraggono oltre l’infinito del cielo?


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