Poco più di un anno fa Mohammad Bouazizi, tunisino, perse la vita dandosi fuoco come reazione alla confisca del suo piccolo banco di verdure da parte del governo . Mai avremmo immaginato che una singola morte avrebbe scatenato un’insurrezione popolare. Mai avremmo immaginato che quella folla di persone riuscisse a destituire il tiranno democratico Ben Alì. Mai avremmo immaginato che, come una forte malattia virale che si propaga ad onde concentriche, il seme delle proteste si sarebbe esteso ai paesi vicini. In Egitto decine di migliaia di persone si ritrovano in Piazza Tahrir, chiedendo a Mubarak di farsi da parte dopo 40 anni di regime illiberale. Seguono Marocco, Algeria, Libia, con la tremenda guerra civile ancora in corso. E poi Yemen, Siria, Bahrein. Chiedono “pane e libertà”. Il contagio continua, non conosce limiti e sbarca nel “civilissimo” Occidente. I manifestanti in Grecia, gli indignados spagnoli, le sommosse in Inghilterra. E Israele, Portogallo, Albania, Francia, fino a superare l’Atlantico, arrivando in Cile e in America. Meno di un secolo fa quasi tutti gli stessi Paesi stavano vivendo il disastro della Prima guerra Mondiale. Adesso possiamo parlare di Prima Protesta Mondiale.
Una protesta comune, fatta per lo più da giovani, uniti dal fatto di essere la prima generazione globale, con gli stessi problemi e le stesse preoccupazioni: non avere un lavoro, non avere un’istruzione degna , di essere vittima di disuguaglianze. Un filo rosso che unisce lo studente cileno, il funzionario greco, l’operaio inglese, il contadino egiziano. Democrazia e lavoro: queste le due parole che rimbalzano dalle Ande al Sahara, contro le enormi disparità politiche, sociali ed economiche che si sono aggravate negli anni, nascoste sotto il tappeto quando stavamo meglio, esplose adesso che viviamo una fortissima crisi.
Ci ha svegliati un fruttivendolo tunisino, la goccia che ha fatto straripare un vaso già colmo e che adesso si sta rompendo in mille pezzi.
Una bellissimaintervista del Time alla madre ci rivela il vero messaggio dietro l’immolazione di Mohammed:
Per 23 anni, la gente ha vissuto con la corruzione, l’oppressione, l’umiliazione, con il dover pagare continuamente tangenti. Il messaggio era che qualsiasi persona che abbia visto minacciata la sua vita, che soffre a causa di funzionari corrotti, che è tormentato da loro, che è tenuto sotto il loro giogo, che vede questi funzionari che controllano il paese, fare quello che vogliono, che non permettono alle persone di vivere. Mohammad ha sofferto molto, ha lavorato duro, ma quando ha dato fuoco a se stesso non si trattava del suo banchetto confiscato. Riguardava la sua dignità. La dignità prima del pane. La prima preoccupazione di Mohammad era la sua dignità. La dignità prima del pane.
Dignità. Quella che cerchiamo disperatamente anche noi, per uscire finalmente dal ridicolo. Perché possiamo saltare pasti, soffrire per un lavoro che non c’è, vedere i meno capaci salire al potere. Ma se ci tolgono l’umanità, se ci tolgono la possibilità di andare avanti, se ci tolgono la libertà di decidere sulle proprie azioni allora che senso ha vivere?
Ce l’ha insegnata un tunisino. Sì, proprio uno di quelli che sono malvisti da noi, additati come criminali e spacciatori.
Un solo uomo che si è sacrificato per la sua dignità è riuscito a mettere in moto il mondo intero verso il cambiamento. Affinché si vada verso una migliore giustizia è necessaria però la dignità di tutti.
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