E’ giusto che i figli dei ricchi possano ereditare i patrimoni dei genitori?

Leggendo l’ultimo numero di Internazionale, ho scoperto un articolo di Arundhati Roy, una scrittice indiana, estratto da un suo discorso fatto davanti ai manifestanti di Occupy Wall Street. Oltre a parlare degli interessi dell’economia militare Usa e delle simili ingiustizie in India, la scrittrice, alla fine del suo pezzo, formula quattro proposte per una  società più equa. Molte sono interessanti e necessarie come  il mettere fine alle proprietà incrociate nel mondo degli affari: ad esempio i produttori di armamenti non possono controllare reti televisive, le società minerarie non possono gestire i giornali, le aziende non possono finanziare le università, i gruppi farmaceutici non possono controllare i fondi per la sanità pubblica.

Ma quella che mi colpisce di più è questa proposta: i figli dei ricchi non possono ereditare la ricchezza dei genitori. Non l’avevo mai sentita dire. Eppure avrebbe un senso: troppo spesso vediamo famiglie che da generazioni si tramandano il controllo di imperi economici. Anche in Italia il fenomeno è diffuso: si tende sempre a tramandare ai figli il proprio patrimonio, anche quello relazionale, perché così è più semplice, più immediato, e lascia un senso compiuto  e di soddisfazione nella propria vita vedere che tutto finisce “in famiglia”. Ed è così che nel nostro Paese non c’è più mobilità sociale:

secondo il 13° rapporto di Almalaurea, a seconda della classe sociale di origine è differente la scelta del percorso universitario e del lavoro che ne consegue. 73 laureati su cento “portano a casa” la laurea per la prima volta (ovvero provengono da famiglie dove i genitori sono privi di titolo di studio universitario), ma dati interessanti si ottengono dal confronto tra laurea del padre e laurea del figlio, molto più coincidenti di quanto ci si sarebbe potuto attendere. Una coincidenza che, se pare quasi tradizionale nelle lauree di accesso alle professioni liberali (giurisprudenza, ingegneria, farmacia, medicina), non sembrava altrettanto prevedibile per gli altri percorsi di studio. Così il 43% dei padri ingegneri ha un figlio laureato in ingegneria; il 43% dei padri laureati in giurisprudenza ha un figlio con il medesimo titolo di studio; il 32% dei padri economisti ha un figlio con lo stesso tipo di laurea; il 31% dei padri medici ha un figlio con lo stesso tipo di laurea; il 29% dei padri laureati in lingue ha un figlio laureato in lingue; il 24% dei padri chimici o farmacisti ha un figlio che ha scelto lo stesso percorso di studio; il 23% dei padri psicologi ha un figlio laureatosi nella medesima disciplina; il 19% dei padri architetti ha un figlio architetto.

Non so se la proposta di Roy è giusta o no. Ad esempio impedirebbe a chi se lo merita di ottenere parte di quel patrimonio che magari ha contribuito a costruire. Certamente bisogna evitare il continuo riprodursi di “caste”, termine che da noi viene associato alla politica, ma che invece sono ancorate saldamente in tanti altri aspetti della società.

Allora ripartiamo dalle basi: un nuovo nato, di qualunque ceto , deve avere le stesse possibilità di vivere una vita soddisfacente, di aspirare allo stesso lavoro, di avere le stesse condizioni di esprimersi del suo “vicino” di culla. Da questo assioma possiamo costruire una società più giusta.


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