Rai: superare la mediocrità

Ieri, come tutti noi, ho pagato il canone RAI. Nonostante mi riduco a guardare il servizio pubblico solo per rari eventi sportivi e qualche  programma di informazione, possedendo una televisione ho dovuto pagare l’odioso balzello. Ma almeno ora, come “socio finanziatore”, posso criticare alcune scelte del consiglio d’amministrazione, che hanno condannato la RAI ad essere un servizio che ha i vizi delle TV commerciali (pubblicità ossessiva, scarsi approfondimenti culturali) senza ereditarne i pregi. Se la Rai fosse stata privata, i dirigenti sarebbero stati cambiati dopo pochissimo, alla luce dei continui fallimenti e del crollo dello share. E invece ancora una volta ci troviamo di fronte a un’ingerenza estrema della politica, con un balletto di poltrone fondamentale in vista dei prossimi assetti elettorali.

E mi rivengono in mente le parole di Michele Serra, sull’incapacità di offrire un vero servizio pubblico da parte della Rai:

I motivi “squisitamente di mercato” addotti dalla Rai per spiegare la distribuzione molto risicata del film di Mario Martone Noi credevamo (solo 30 copie in tutta Italia) sono stati smentiti dal più inatteso degli oppositori: il mercato in persona. Code ai botteghini per vedere un film “difficile” e lungo tre ore. Vacilla (non solo al cinema, anche in televisione) l’ idea che il mercato sia una specie di falce che mozza il capo di chiunque osi alzare la testa oltre il livello della mediocrità. Il mercato è l’ alibi prediletto dei produttori paurosi, degli editori pigri e degli artisti conformisti: la frase “la gente non capirebbe” ha fatto più danni alle arti, alla comunicazione, alla cultura e anche alla politica di qualunque censura, di qualunque taglio, di qualunque crisi. La gente non esiste, esistono le persone, esiste una rete fitta, molteplice e indecifrabile di piccole comunità pensanti, di amici comunicanti, di idee contagiose, di passioni mutevoli. A volte gli artisti riescono a dare corpo a questo misterioso groviglio, a volte no. Il rischio intellettuale è, appunto, un rischio: ogni editore che si rispetti (e la Rai è il primo editore italiano) non può non saperlo. E la capacità di rischiare, oltretutto, non era il vanto della famosa società di mercato?

Che senso ha mantenere pubblica la Rai, con i nostri soldi, se poi non riesce a offrirci qualcosa in più delle altre televisioni? Quel “qualcosa” che va contro il mercato, che può arricchire l’offerta culturale, che le altre tv non hanno il coraggio di fare per paura di perdere ascolti e quindi pubblicità. Vorrei una Rai che punta di più sulla qualità dei contenuti e dell’informazione, che mi sappia dare qualcosa che mi distolga dall’ampia offerta di Internet e social media. E per ottenere questo c’è un unico modo: allontanare la politica. Non è compito dello Stato competere sul mercato televisivo, che deve invece promuovere un’informazione trasparente e contenuti di qualità. Solamente così, ogni anno, a fine Gennaio,  sarò contento di pagare il canone  pur non guardando mai la televisione, perché sicuro di offrire un servizio per tutti, e non per pochi intimi che usano i canali pubblici come merce di scambio per favori al potente di turno. Per non trovarsi più di fronte una Rai che è stato di tutto, ma anche di più.

 


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