La controproposta PD sull’art.18 è questa: introdurre il giudice anche per i licenziamenti economici, per valutare se le motivazioni addotte da parte delle aziende hanno una attinenza alla realtà.
Ma, fanno bene i lavoratori ad affidare ai giudici la tutela dei loro diritti? Secondo un recente reportage di lavoce.info (3 Marzo) non è che ne esca un quadro chiaro. I tempi dei procedimenti giudiziari variano moltissimo da città a città (si va dai 200 giorni di Torino ai 429 di Roma). E varia in modo estremo, da giudice a giudice, la percentuale di volte in cui viene data ragione al lavoratore o al datore di lavoro. Insomma, una vera lotteria. Molto costosa per le aziende, e non troppo conveniente neanche per i lavoratori.
Gli economisti concludono il loro articolo con queste riflessioni:
Forse i lavoratori e i sindacati pensano che sia meglio andare dal giudice solo perché non hanno mai visto questi numeri. Ma la nostra impressione è che questo stato di cose serva solo ad arricchire gli avvocati e costringa i giudici ad occuparsi di controversie che potrebbero benissimo essere risolte in altro modo: ad esempio stabilendo un prezzo adeguato per la possibilità di licenziare, quando ovviamente il motivo non sia discriminatorio e il lavoratore non abbia commesso colpa grave.
In ogni caso, se davvero la disciplina attuale dei licenziamenti fosse posta a protezione di un diritto fondamentale della persona, come può ammettersi che questa protezione sia affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi a giudici così diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione?
E se spostassimo il “peso” della riforma dai lavoratori al tribunale? Non è che per attirare gli investimenti e le imprese dall’estero e per tutelare i diritti dei lavoratori abbiamo bisogno urgentemente di una riforma della giustizia, per renderla più snella, più veloce ed efficiente?
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