Mercoledì scorso alla Feltrinelli di Pisa Dario Danti e Fausto Bertinotti hanno presentato il loro ultimo libro, “Le occasioni mancate”, che ripercorre 3 anni fondamentali per la storia della Sinistra: 1991, 2001, 2011. Dario mi aveva invitato a fare un domanda sul 1991. Ci ho provato anche se, indisciplinatamente, ne sono venute fuori tre. Ecco la traccia:
1991. Avevo 8 anni. Troppo piccolo per capire cosa stava succedendo, troppo immaturo per comprendere gli effetti della caduta di muri, di guerre nel golfo, di svolte della sinistra. L’unico muro che mi interessava era quello che mi separava dal campo da calcio dietro casa, la guerra contro i ragazzi del palazzo di fronte e le svolte a sinistra di Roberto Baggio.
Ho quindi vissuto il 1991 in maniera indiretta, attraverso le letture e le testimonianze di militanti e attivisti. Spesso ho notato una patina di nostalgia nei loro racconti quando, con un sorriso bonario e una pacca sulla spalla, mi dicevano che il tempo delle ideologie era finito, che il secolo breve si era portato via anche l’essenza delle parole che contraddistinguevano la politica.
Come se venti anni fa l’uguaglianza fosse stata più uguale, la libertà più libera, la pace più pacifica. Il 1991 come spartiacque per una politica più terrena, con meno spazio alle emozioni.
Secondo loro essere un idealista oggi equivale a essere un sognatore, solamente un illuso di fronte alla complessità macchiavellica della politica del presente che richede una gestione immediata delle cose.
Eppure rileggendo anche il saggio di Dario (Danti) sul 1991 ho la forte sensazione che la retorica frase della ripetitività della storia non sia in fondo così banale. Soprattutto su 3 tematiche:
Guerra
La guerra nel golfo, come viene detto anche nel libro, apre il filone delle guerre moderne: le guerre mediatiche, con reporter e giornalisti di tutto il mondo che relazionano istantaneamente degli sviluppi bellici, aprendo il filone del peggiore dei reality show: la guerra in diretta.
Da allora è cambiata solo la tecnologia, sempre più evoluta, ma non la modalità: sparisce la sensibilizzazione sugli effetti reali della guerra: abituati a vivere in un conflitto permanente, seppur lontani dalle nostre case, le nuove guerre non riescono a entrare nel nostro immaginario collettivo, come ad esempio il Vietnam, e diventano una macabra conta di numeri.
Così come nel 1991 il PCI si spaccò anche oggi la posizione sui conflitti armati resta un forte elemento di contrasto nella Sinistra: tra i pacifisti radicali e gli interventisti moderati, in un ventaglio di posizioni impossibili da conciliare.
Prima domanda : Può il pacifismo radicale, quello che evita ogni conflitto armato, appartenere solamente ai movimenti o è possibile collocarlo anche all’interno dei partiti, diventando però un ostacolo insormontabile per l’unità della Sinistra?
Partito
Parafrasando Fausto (Bertinotti) che nel libro dice che non lo emoziona la caduta dell’Unione Sovietica, a me non appassiona il crollo del Partito Comunista semplicemente perché non l’ho vissuto. Mi emoziona di più il presente della politica: le parole, i gesti, ma soprattutto il sogno, che non si definisce come una fuga dalla realtà né come la sua negazione o la proiezione di un mondo che non c’è. Il sogno in politica è una sfida a forzare in un punto quello che appare come un vincolo, come un obbligo nella realtà e nella quotidianità.
Ma il sogno deve essere condiviso e qui entrano in gioco le “liturgie”, necessarie per rendere più omogeneo e meno frammentato il discorso politico.
Continuando sul paragone con la religione che si trova anche nel libro mi sembra che i partiti di Sinistra di oggi, nei quali voglio includere anche il PD, vivano solo ed esclusivamente di simboli, di liturgie predefinite, come una messa fatta solo di canti e senza l’omelia: le feste dell’Unità o di Liberazione, la chiamata annuale agli ex iscritti, l’utilizzo di un linguaggio che non cambia da anni, l’inserimento della falce e martello nel simbolo e molte altre piccole ricorrenze.
E il distaccamento tra chi si riconosce in questa liturgia e chi no è sempre più ampio, causando un ulteriore scollamento con la cosiddetta società civile, che rifugge dai partiti, oggi al minimo storico come credibilità: solo 3 persone su 100 credono ancora nel loro ruolo di guida etica, morale e programmatica.
Nel saggio si dice che nel 1991 per rincorrere la volontà del popolo c’è stata la creazione del PDS con la conseguente scissione di Rifondazione comunista.
Seconda domanda: Adesso che la frattura con “il popolo della sinistra” è ancora più ampia è possibile rifondare i partiti o è necessaria un’altra offerta politica, con nuovi partiti, nuovi simboli e nuove liturgie?
La svolta a sinistra
Nelll’introduzione dario prova a spiegare se nel 1991 si è capito veramente come uscire “da sinistra” dalla crisi del movimento operaio novecentesco?
E qui ognuno dava una propria interpretazione. A livello globale negli ultimi due decenni la maggior parte delle vittorie della Sinistra sono state quelle che percorrevano “la terza via”, che alcuni hanno sprezzantemente definito come “neoliberismo con una spruzzatina di welfare”.
Anche la socialdemocrazia europea, vista come possibile nuovo ordine politico mondiale, arriva stanca e logora alla prova della crisi attuale. E allora oggi più che allora viviamo in una sorta di quello che Gramsci aveva definito “interregno”: quello in cui «il vecchio non può più ma il nuovo non può ancora».
Siamo consapevoli che questo modello ha fallito, capace solo di fare “soldi con i soldi, e non con il lavoro”, come dice Luciano Gallino nel suo libro “Turbocapitalismo”:
E la soluzione non sembra apparire all’orizzonte.
Nel libro si ricorda come il PCI è stato paragonato in passato a una giraffa, ora la sinistra sembra assomigliare a un polpo: c’è un lessico comune fatto di parole come partecipazione, cooperazione, uguaglianza, solidarietà, democrazia, ma poi ogni tentacolo agisce per conto suo, spesso attorcigliandosi con gli altri tentacoli, in una lotta fratricida.
Terza domanda che chiude il discorso iniziato:
Il 1991 (ma soprattutto il crollo del muro di Berlino) chiude la stagione dei grandi ideali e quindi la fine dei sogni e delle utopie. Per disegnare un nuovo futuro dobbiamo riaprire quella stagione, ripensando un modello di società che guarda lontano o ci dobbiamo rassegnare a una politica dai “tempi televisivi”?
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