Un uomo dai tratti molto duri si avvicina svogliatamente alla nostra macchina. Siamo a Metkovic e la frontiera tra la Croazia e la Bosnia ci appare all’improvviso, in tutta la sua semplicità : un casottino grigio e due sbarre arrugginite. Consegniamo i nostri passaporti al poliziotto di frontiera che comincia a sfogliarli distrattamente. Si vede che ha fretta di mandarci via. Ci congeda pronunciando un “Vai Stefano” dal marcato accento slavo. La Bosnia non sembra differente dalla Croazia: verde ovunque, alte montagne e strade prive di segnaletiche. Ma all’improvviso qualcosa ci sveglia dal naturale torpore del viaggio, qualcosa che non siamo abituati a vedere: un minareto, dalla punta resa rossa dal tramonto, si staglia alto nel cielo. I musulmani sono la maggioranza in Bosnia-Herzegovina e le chiese, anche se presenti nel territorio, sono di gran lunga superate in numero dalle moschee.
Un cartello bilingue scritto anche in cirillico ci indirizza verso Mostar dove passeremo la notte prima di arrivare a Tuzla.
Un palazzo fatiscente crivellato di proiettili e di colpi di mortaio ci segnala il nostro arrivo nella città simbolo della regione. Ce ne saranno tanti altri di scheletri come quello. Un desolante cimitero architettonico. Come potrebbe essere altrimenti? Diciotto mesi di assedio durante la guerra bosniaco-croata, iniziata nel 1992, hanno segnato permanentemente il volto di questa città, riducendola a un gruppo di macerie. Mostar era una pedina fondamentale nello scacchiere della guerra. La città più ricca della regione dell’Herzegovina, la più popolosa, la più ricca di storia. I primi insediamenti sono infatti datati nel quindicesimo secolo, quando Mostar era una città di punta nell’impero ottomano, con un vistoso elenco di cattedrali, moschee, librerie e altri sontuosi palazzi, da far invidia a qualsiasi città dell’Est Europa. Un contesto da fiaba con al centro una gemma, una pietra preziosa: quel ponte cosi’ magnificamente perfetto nella sua semplicità. un’arcata sola sospesa sul fiume Neretva, una lacrima di pietra che lega indissolubilmente le due anime della città. Anche se il ponte e’ crollato nel Novembre del 1993, in realtà era già morto prima, la sua anima era svanita da tempo. Infatti Mostar era già divisa in due con a Ovest i Croati e le loro truppe e a Est i Bosniaci.
Il ponte, che aveva visto passare sultani e imperatori, aveva perso ogni ragione di esistere. Non univa, non aggregava, non mischiava più nessuno. Anche se ormai già in macerie, lo Stari Most, il ponte vecchio di Mostar crollava in una fredda giornata autunnale, colpito da un semplice colpo di mortaio, senza opporre resistenza, come se avesse capito che era ormai arrivato alla fine, che la sua funzione di unire era ormai svanita, addolorato e devastato dall’irrazionale spirale di odio e violenza di quei mesi. Con lui moriva l’intera città, dato che Mostar prende il nome da “mostari” che significa “i guardiani del ponte”. Ma i due popoli troppo accecati dalla guerra non capirono la lezione e il sacrificio del vecchio ponte. Le violenze e i bombardamenti continuarono dando il colpo di grazia alla città, distruggendo ad esempio il palazzo del vescovo e la sua libreria contenente 50000 volumi. Per non parlare degli stupri perpetrati dai Croati nei confronti delle donne bosniache, gocce di sangue nel mare delle violenze causate da quella folle guerra.
Oggi Mostar prova a riprendersi lentamente. La città e’ severamente organizzata secondo il principio della “national equality”, ovvero si ricerca una equa ripartizione fra etnie, per non averne nessuna che domina, alla ricerca di un equilibrio ancora troppo fragile da mantenere. E’ rinato il borgo antico grazie alle iniziative dell’Unione Europea e la benedizione dell’Unesco,che cerca di attirare quel turismo necessario per far ripartire l’economia di una zona povera di risorse. Anche il ponte risplende di nuovo sul fiume Neretva, ricostruito fedelmente a immagine e somiglianza del vecchio eroe di pietra. Ma quando lo vedi, soprattutto illuminato dalle luci notturne, capisci la sua artificiosità, inserito brutalmente in un contesto che non gli appartiene. Il ponte è giovane, pallido, troppo “nuovo” per incutere rispetto. Al massimo puoi provare simpatia per quella nuova costruzione, simbolo di rinascita e di unione, che ha permesso alla città di rivivere ancora, di avere un solo cuore pulsante. Ma lo spirito del vecchio ponte aleggia ancora nostalgico nella zona. Lo vedi nel viso triste e segnato della venditrice di souvenir, lo senti quando leggi su una fredda pietra bianca “don’t forget“.
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