Per non dimenticare Srebenica – 4° parte – L’erba cresciuta dal sale – Tuzla – 10/07/10

Chissà cosa sognano i bambini dell’orfanotrofio di Tuzla, chissà a cosa pensano quando sono nel letto prima di addormentarsi. Quali sono le loro aspettative, i loro ricordi, le loro paure? Queste sono le domande che ci facevamo in macchina mentre cercavamo di evitare tassisti troppo spericolati, domande che purtroppo non hanno ricevuto risposta.
L’orfanotrofio ha l’aspetto e le caratteristiche di una normale scuola italiana, con l’intonaco bianco che cade a pezzi dalle facciate, un giardino con strutture in legno traballanti e l’erba lasciata crescere rigogliosa e selvaggia. Un cumulo di terra mischiato con del fango diventa un luogo per giocare e fantasticare di nuove avventure, in attesa perenne di qualcosa che possa spezzare la monotonia di una vita vissuta in una gabbia senza sbarre.
Non ha un nome l’orfanotrofio, forse per empatia con i bambini che arrivano senza essere identificati, simulacri vuoti da riempire con emozioni e affetto, che necessitano di uno sforzo doppio di attenzioni.
Pochi sono i figli di Srebenica, sono ormai passati 15 anni e gli orfani di allora sono stati sbattuti fuori al compimento del diciottesimo anno. Ma la situazione è ancora critica:  nel cantone di Tuzla circa 1.000 bambini sono orfani di entrambi i genitori e 20.000 lo sono di uno. Una catastrofe sociale impossibile da gestire con le risorse a disposizione.
Negli anni scorsi l’orfanotrofio di Tuzla ospitava più di 150 ragazzi, ma successivamente per colpa dei tagli al sociale, a noi così familiari,  la capacità si è ridotta a più della metà, con gravissime carenze di personale qualificato. Non ci sono pediatri o psicologi  a fornire aiuto. I bambini vengono lasciati crescere come l’erba del giardino dell’orfanotrofio, senza una cura precisa, così fragili da spezzarsi ai primi venti di tempesta.
Sembrano forti e coraggiosi a prima vista, spavaldi e irriverenti con gli adulti. Non hanno paura, ne’ diffidenza, non si aspettano più niente. Come si può aver fiducia di chi ti ha voltato le spalle? Di chi viene e ti regala un giocattolo, un’emozione, un sorriso, per poi tradirti nuovamente andando via pochi minuti dopo, lasciandoti nuovamente da solo. Sono cresciuti in fretta, troppo in fretta i bambini dell’orfanotrofio di Tuzla. Chi ha detto che il tempo non è relativo? Un anno passato nella struttura è molto più lungo di uno trascorso in una casa italiana tra videogiochi e tv, coccolati e viziati dalla famiglia. Costretti ripetutamente a negarsi le piccole gioie dell’infanzia: un giro in bicicletta in libertà, possedere un proprio giocattolo, ricevere una carezza da parte di qualcuno che ha occhi solo per te.
Quando pensi che a loro puoi solo dare ti sorprendono con un gesto, una semplicissima azione che mette in crisi le tue certezze, le tue verità, le tue sicurezze e capisci che sono loro a poterti insegnare qualcosa. Come nel caso di Lejla, bellissima bimba di 9 anni, occhi marroni e capelli nero corvino raccolti in una treccia, che asseconda i rapidi movimenti della testa. Un neo sopra la bocca che ispira tenerezza e una voglia matta di essere abbracciata anche per un solo momento fanno Lejila una bimba adorabile. Ha appena ricevuto una caramella, ma invece di divorare voracemente quel tesoro inaspettato, va a chiedere a tutti i bambini che sono vicini se la volevano mangiare al posto suo, non perchè non la volesse, ma perchè all’orfanotrofio di Tuzla si deve condividere quello che si ha con i propri fratelli o sorelle, fregandosene se hai lo stesso sangue o no. Non contenta di chiederlo agli altri bimbi Lejla vorrebbe offrire la caramella anche a noi, visitatori da un mondo lontano fatto di ricchezza e di opulenza. Una lezione di altruismo data da chi non ha niente, senza provare invidia o rancore verso chi ha avuto la fortuna di potersi permettere migliaia di caramelle come quella.
Nella struttura convivono bambini e ragazzi da 0 a 18 anni, in un mix davvero letale, dove nascono gerarchie e gruppi in lotta fra loro per riuscire a “comandare” sugli altri, magra soddisfazione dopo un’infanzia fatta di privazioni. E’ un ecosistema molto delicato e perverso, che ha l’approvazione del personale della struttura, visto che garantisce loro meno lavoro per mantenere la disciplina e l’ordine. Stanno lontani da noi i ragazzi più grandi, quelli prossimi ai 18 anni, che si ritroveranno per strada a breve. Li vedi con i loro capelli lunghi, lo sguardo perennemente incazzato, pronti a scrutare ogni piccola novità che potrebbe modificare l’ecosistema da loro difficilmente creato e gestito. Non vengono a salutarci e quando incroci i loro sguardi non vedi la spensieratezza dei bambini, ma la rabbia degli adulti. Ti sfidano fissandoti negli occhi e giocando con dei pezzi di ferro, nei loro vestiti di marca presi chissà dove. Non riesci a sostenere lo sguardo a lungo e cerchi rifugio negli occhi di Lejla o di qualsiasi altro bimbo nei paraggi.
Conviene allearsi con loro, sono quelli che mandano avanti la baracca..
Non puoi parlare con i bimbi dell’orfanotrofio, in pochi conoscono lingue come l’italiano e l’inglese. Ti coprono di parole dal suono gutturale e incomprensibili e ti senti a disagio nel non poter capire cosa ti chiedono e quindi di non poter soddisfare i loro bisogni.
Ma c’è un linguaggio che è universale, che anche noi conosciamo molto, troppo bene, anche se oggi è oscurato dalla mediazione della tv e dello star system.
E’ il linguaggio del pallone. In un attimo siamo a giocare con un gruppo di loro, esaltandoci e urlando insieme il nome di calciatori famosi. Amir impersona Cristiano Ronaldo,eccellente anche nella sua imitazione quando deve tirare le punizioni, con le gambe spalancate in attesa del fischio dell’arbitro.Karim è Rooney, anche se il paragone fa sorridere data la struttura esile del bimbo bosniaco in confronto all’orchesca figura del giocatore inglese. Ovviamente nessun italiano è stato nominato.
Una parata, un dribbling, un tiro in porta sono state le nostre parole per superare le loro diffidenze e lasciarci entrare nel loro “gruppo”. Ogni tocco del pallone una sillaba.
Questa è la vera essenza del calcio, la capacità di unire i popoli, ormai dimenticata e offuscata tra episodi di violenza, veline e moviole. Un’altra lezione appresa in quello che è stato definito: “il buco nero dell’Europa”.

Tuzla, essendo città universitaria, ha molti giovani, che sfilano di sabato sera nel corso principale. Puoi trovare ragazze dai tacchi altissimi, coppie felici e gruppi di ragazzi in piena tempesta ormonale. Tutti però non sembrano prestare attenzione e schivano quel monumento di marmo che si erge a metà della via. Sembra che non vogliano riconoscerlo, che lo considerano qualcosa di estraneo, che non gli appartiene. Quella struttura di marmo ricorda infatti una delle peggiori ferite di Tuzla. Nelle ore serali del 25 maggio del 1995, i giovani della città stavano manifestando felicità per la stipula dell’ennesima tregua, che gli avrebbe garantito ore di pace e di serenità. L’Esercito della Republika Srpska, i fondamentalisti serbi, tirarono due granate in direzione di quel corteo dei giovani, uccidendone 71 e ferendone altri 200. Tutte le vittime erano civili e la maggioranza aveva un’età compresa fra i 18 e i 25 anni, molti dei quali studenti che attendevano la fine della guerra per riprendere gli studi. La cosa più tremenda è che feriti e morti hanno dovuto attendere il giorno dopo prima di lasciare quel luogo di distruzione, perchè gli abitanti avevano paura di una nuova scarica di granate. Questa era la strategia della paura adottata a Sarajevo, dove i cecchini sparavano per ferire, attendendo i soccorsi per poi commettere una vergognosa strage. Questo solamente quindici anni fa.
Adesso i giovani caduti riposano nel parco di Tuzla, sotto tombe bianche che hanno all’interno la loro foto. Quando cammini tra le stele di marmo, ti sorridono, accompagnano il tuo silenzio. Sono i volti dei tuoi amici, dei tuoi conoscenti, ti sembrano così dannatamente familiari. Vorresti parlargli, confidarti, sentire la loro voce. Ma la fredda logica ti riporta alla drammatica realtà. Smetti di guardarli e vedi cosa c’è attorno. Sulla scala ragazzi si allenano per la prossima partita di calcio. Una panchina incornicia l’amore di due ragazzi, che si scambiano caste effusioni all’ombra di un albero. Un anziano dalla pelle rugosa passeggia tenendo per mano il suo nipotino.
Non è mancanza di rispetto, ma un modo per onorare i giovani caduti di una folle guerra, cercando di portare avanti le piacevole emozioni a loro brutalmente negate.
L’amore e la morte, l’antico tema trattato dai poeti latini, da Leopardi,  da D’Annunzio.Solo l’amore è così lacerante, pungente, penetrante, intenso, straziante, acuto, violento come il sentimento provato dopo una perdita. Solamente con l’amore si può dimenticare la morte.

Gli abitanti di Tuzla la chiamano «la città sul chicco di sale», per i giacimenti di sale minerario e dell’ acqua salata, che  ha lasciato l’antichissimo mare Pannonico, mentre si ritirava da questa zona piu’ di dieci milioni anni fa.  Il sale è nel Dna degli abitanti di Tuzla, che vogliono conservare la memoria, come il sale preserva i cibi dalla decomposizione. Non vogliono vendetta, ma chiedono giustizia. Ancora dopo 15 anni risuonano tristemente le parole dell’allora sindaco di Tuzla, dopo l’attentato del 25 Maggio:
“Se restate in silenzio, se anche dopo questo non agite con la forza come unico mezzo legale (…) allora senza dubbio alcuni di voi eravano e restano complici del male, del buio e del fascismo»
Purtroppo il silenzio è ancora assordante.


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