Violentocrazia – Storia di un giorno di ordinaria follia a Roma

Un clima di delusione e sconforto regnava a Colle Oppio, rifugio dei manifestanti in fuga, mentre pochi metri più in là, verso Piazza San Giovanni, stava scoppiando la guerriglia. Cosa stava succedendo si poteva intuire: avete presente i rumori di sottofondo che si sentono durante i servizi negli scenari di guerra? Scoppi, sirene, urla. Esattamente gli stessi che si potevano udire nella Capitale. Roma come Baghdad, Tripoli, Kabul. Non doveva finire così. Ma come siamo arrivati a questo?
Eppure tutto era iniziato nel migliore dei modi. Un sole fuori stagione si rifletteva negli occhiali da sole dei molti giovani (e meno giovani) accorsi a Roma per unirsi alla Prima Protesta Globale, in contemporanea con altre 800 città. 300mila persone, indignate ma sorridenti, consapevoli della necessità di un cambiamento, anche piccolo, negli ingranaggi dell’economia e della democrazia. 300mila persone, un numero considerevole se consideriamo che nelle altre città il totale dei manifestanti si riduceva a poche migliaia: a New York la “famosa” Occupy Wall Street ha visto la partecipazione di 6mila persone, a Francoforte 3mila, in Giappone poche centinaia. Numeri nettamente inferiori rispetto alla protesta italiana. Nel nostro paese la piazza attira, piace, è un altro momento sociale. Muoversi insieme in tanti contro l’immobilismo dei pochi della classe dirigente.
Con questo spirito è partito il corteo. Precari, studenti, disoccupati, semplici cittadini. Per la maggioranza giovani, uniti globalmente dal fatto di essere in difficoltà, con un futuro incerto, con disuguaglianze sempre più vistose. E’ stato visto come un corteo di parte, di sinistra. Se sinistra vuol dire ancora lotta alle ingiustizie, allora sì, era un corteo di sinistra, della quale abbiamo però un disperato bisogno, oggi più che mai. C’erano le bandiere storiche, la falce col martello, quella di Rifondazione, aggrappati al disperato tentativo di restare al passo con i tempi, come se le loro idee fossero ancora valide. La stagione degli -ismo è finita, ne rimane solo uno, il capitalismo, ma sembra in evidente difficoltà. Equità chiedono i manifestanti, declinata in molti modi: redistribuzione della ricchezza, accesso alla conoscenza e fine dei privilegi. Eccolo un programma politico per il futuro. Il resto sono solo nostalgie e malinconie, sintetizzate con un cartello: “doveva essere una manifestazione apartitica, ve ne siete impadroniti con le vostre bandiere antiche”. Apolitici vogliono essere i manifestanti, contro tutti i partiti, spesso considerati uguali e collusi col “potere”.
Mentre scendo per una Via Cavour affollata all’estremo, incrocio la parte del corteo degli studenti, che marciano compatti dietro “scudi di polistirolo” con sopra scritti i titoli più significativi della letteratura passata e recente. Classici contro l’ignoranza. Già visto, ma sempre piacevole. Ci sono gli inevitabili carri che sparano musica, alimentando il clima di festa. Su uno di questi si trova Frankie Hi-nrg, che canta rappando le sue canzoni di denuncia. Ogni tanto vengo pervaso da un acre odore di erba. Ovunque i manifestanti fanno a gara per il cartello più ironico. Sorrisi, musica e risate. D’altra parte protesta fa rima con festa, e non è male vederla così.
Eppure scendendo il corteo per avvicinarsi al Colosseo, ecco che l’allegra sinfonia si guasta e iniziano le prime stonature. Cosa ci fanno quei ragazzi con i caschi? Non faccio in tempo a girarmi che vengo spintonato da un gruppo di incappucciati, che si fa largo con fare spedito e minaccioso. Appena la folla li vede iniziano gli insulti e le richieste di andarsene. Un unico coro, scandito dalle parole “Buffoni”, “Fascisti”, “Andatevene”. Gli incappucciati, molto giovani in effetti, salutano alzando il dito medio e proseguono la loro marcia. Chi erano? Cosa ci facevano? Erano solo quelli? Purtroppo a breve avrei conosciuto la drammatica risposta.
Il rumore degli elicotteri accompagna la manifestazione, ma è un suono al quale siamo ormai abituati durante i cortei. Quello che non mi aspettavo è l’odore pungente di bruciato. Cerco di capirne la direzione e trovo la scheletrica carcassa grigia di un SUV, dato alle fiamme poco tempo prima. Purtroppo non sarebbe stata l’unica. Una Mercedes presa a mazzate e contenitori dell’immondizia bruciati non fanno presagire niente di buono.
E le banche? Nessuna pietà. Una filiale di una banca a me sconosciuta ha le vetrine in frantumi. Gli scontri dei giorni precedenti erano solo l’ “anteprima”. Più vado avanti più il corteo è meno compatto, qualcosa non quadra. Fino a quando, tagliando per una via parallela, cerco di raggiungere in fretta Piazza San Giovanni per capire meglio cosa sta succedendo. C’è tensione. Purtroppo appena arrivato al Colosseo tutte le mie preoccupazioni hanno una risposta. Fumata nera. Avete presente quando muore un Papa e si riunisce il conclave per scegliere il successore? Se non trovano l’accordo il popolo ne viene informato tramite una “fumata nera”, che genera delusione tra chi era accorso per sentire e acclamare chi avrebbe portato nuove parole e nuove speranze.
La stessa delusione di chi, arrivato al Colosseo, ha visto un enorme fumo nero provenire da Piazza San Giovanni e capisce che la protesta è finita. La civiltà lascia spazio all’inciviltà, la democrazia alla violenza, i sogni agli incubi. Seguono scene di panico, manifestanti che non sanno dove andare e si rifugiano in alto, come faceva la popolazione assediata, persone che scappano, ragazzi che piangono, rumori di guerriglia, odore di lacrimogeni. E’ decisamente finita. Il resto è la triste storia che sappiamo.
Inizia il valzer delle responsabilità, il solito gioco politico dello scaricabarile, condito dalla solita violenza verbale che contraddistingue l’atmosfera italiana da molti anni a questa parte. E’ colpa dei manifestanti, dei poliziotti, di Berlusconi, della sinistra, degli studenti, dei servizi segreti. E’ la sfera pubblica italiana, bellezza: se dividiamo i colpevoli, sarà difficile individuarli.
Resta il fatto che sapevamo di vivere un momento molto teso, alimentato dalla rissosa arena politica, e non si è fatto niente per prevenire. C’è stata una sbagliata valutazione? Un intelligence fallace? Un’organizzazione superficiale? Non lo so, e difficilmente sapremo qualcosa, lasciandoci ancora una volta con l’amaro in bocca e l’odore dei lacrimogeni nel naso, generando ancora più sfiducia e alimentando teorie complottistiche che non fanno bene alla tenuta democratica del Paese.
L’Italia si mostra al Mondo ancora per le sue contraddizioni: un paese con un civismo straordinario, con qualità strabilianti, con una voglia folle di cambiare, ma che rimane fermo per colpa di pochi. l’1% tiene ancora in scacco il rimanente 99%. L’Italia, l’unico paese dove comanda la violenza, verbale e fisica, e la democrazia è relegata alle sole elezioni.
Hanno ucciso l’indignazione, hanno reso muto chi chiedeva più giustizia, hanno assordato chi doveva ascoltare. Non devono passarla liscia. La politica ora deve farsi carico delle istanze e delle richieste portate avanti dai manifestanti. Solo così riusciremo a ridare un minimo di fiducia, una speranza di futuro. Solo così potremo ripartire. Solo così potremo finalmente uscire dal governo della violenza.


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