Non ci siamo. La trattativa per trovare un accordo sulla riforma del mercato del lavoro si è rotta sulla flessibilità in uscita, il famoso Art.18 che tiene banco nella discussione pubblica da almeno 10 anni. A niente sono servite le parole di Napolitano e di Bersani per far ragionare le parti. Il Primo Ministro Monti è stato chiarissimo: “Basta con i veti”. E la discussione, a meno di eclatanti sorprese, dovrebbe passare al Parlamento dove a soffrire sarà il PD, incastrato tra il sostegno al governo e il suo “rapporto” privilegiato con la CGIL. Ne parleremo ancora.
Quello che mi preoccupa di più è il totale silenzio sull’altro tipo di flessibilità, quella in entrata, che ha creato il drammatico fenomeno della precarietà. Un silenzio che fa temere una “non-riforma” su questo versante. Infatti ieri il ministro Fornero si è limitata a dire che “il contratto di lavoro a tempo indeterminato diventa quello che domina sugli altri per ragioni di produttività e di legame tra lavoratori e imprese. Vincoli stringenti ed efficaci saranno posti sui contratti intermittenti e su quelli a progetto”. Ma questi “vincoli stringenti ed efficaci” sono ancora nel buio. E la lotta ai 40 e più contratti di lavoro? E la tanto promessa fine del dualismo dei lavoratori( precari “sfruttati” e lavoratori “garantiti”)?
Gli unici correttivi annunciati sembrano una presa di giro: “sarà prevista una maggiorazione dell’1,4% sui contratti a termine, ma in caso di assunzione definitiva parte di questo costo sarà restituito all’azienda”.
Ma la fine del precariato?
Sono ancora fermamente convinto che la proposta di Boeri-Garibaldi sia la migliore soluzione: contratto unico, sussidi di disoccupazione, reddito minimo di cittadinanza.
Posso capire le battaglie sull’ Art.18 e cercare di saperne di più. Ma non posso giustificare il silenzio sulla lotta alla precarietà, che rende fragile e instabile il futuro dei giovani. Eppure la riforma del lavoro la dovevamo fare per loro, no?
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