“Italiano? Ahhh, pizza, spaghetti, mandolino, mafia!”. Molte sono le storie che narrano le gesta e l’epica degli italo-americani. Da quando sbarcavano a Ellis Island, di fronte a Miss Liberty, la statua della libertà, con una valigia di cartone legata con un piccolo spago, fino alle storie dell’ultima serie tv di successo come “I soprano”, che ovviamente racconta le vicende di una famiglia invischiata nella malavita. Certo non sono più i tempi di Al Capone, Lucky Luciano e Don Vito Corleone, personaggi veri o immaginari legati alla triste storia criminale americana, che abbiamo tristemente esportato insieme alla nostra creatività e filosofia di vita. Adesso i figli dei figli della prima generazione devono affrontare molti meno pregiudizi, essendosi affermati anche nella società pubblica americana, come ad esempio Mario ed Andrew Cuomo, padre e figlio governatori dello Stato di New York, o il famoso ex sindaco della Grande Mela Rudolph Giuliani. Nonostante la globalizzazione e il tempo ci abbia avvicinato alla grande famiglia americana, l’esaltazione e la drammatizzazione dell’italiano medio rimane, non solo in televisione grazie alle cafonate di Jersey Shore, un misto di impietose irreverenze alla cultura nostrana, ma anche nell’idea comune che serpeggia nelle menti degli americani. E questo lo possiamo vedere bene durante le varie feste patronali che animano i quartieri italiani delle varie città statunitensi. Anche a Boston c’è una piccola “Little Italy”, nel quartiere North End, dove un tempo vivevano i lavoratori del vecchio porto. La zona è ricca di storia, dato che North End è il primo quartiere della città, ed è disegnato da vicoli stretti e strade tortuose, che ricordano più le città medievali italiane che i grandi spazi americani. Una piccola perla rispetto alla banalità architettoniche di molti quartieri bostoniani.
Nelle viuzze si respira aria di casa. Cartelli che inneggiano alla pizza, nomi che riportano alla mente grandi personaggi del nostro paese, negozi che si vantano di avere il miglior gelato del mondo (si, vabbè).
Un trionfo dell’italianità? Assolutamente no. Semmai è l’esaltazione dei caratteri più distintivi della nostra cultura, la mercificazione degli stereotipi più difficili da distruggere.
Purtroppo le feste patronali ne sono una triste sintesi. A Boston quella più famosa è dedicata a Sant’Antonio, che si svolge negli ultimi weekend di Agosto a North End.
Più che altro è una fiera del cibo, dove centinaia di piccoli stand offrono pietanze italiane (e non) per placare la fame degli avventori. In realtà la cosa buffa è che nella maggior parte dei casi sono cibi che non ho mai sentito, dei quali non ne immaginavo nemmeno l’esistenza, che hanno stupito un fine conoscitore della cucina italiana come me: sono io che mi sono perso qualcosa o qui stanno sbagliando tutto? Credo più la seconda: tra gli stand possiamo vedere cannoli fatti senza ricotta, il gelato mischiato con gli Oreo (dolci americani che ricordano i Ringo), banane caramellate, in un crescendo di bestemmie gastronomiche che arrivano fino all’offesa finale: la pizza con l’hamburger sopra. Uno scempio che da troppo tempo rimane impunito, battuto solo dall’inglese pizza con l’ananas.
Mi verrebbe voglia di sedermi accanto a uno di questi tanti venditori di “presunta italianità”, accarezzargli affettuosamente la testa chiedendogli in tono materno perché sta violentando così barbaramente l’Italia. Abbiamo già tanti motivi per venire derisi, almeno sul cibo no, non possiamo rovinarci la reputazione.
Ad esempio essere italiano significa essere un fino conoscitore di vino e quando ai ristoranti c’è da ordinare una bottiglia tutti si rivolgono a me, certi di una mia esperienza superiore che gli garantirà la migliore scelta. E pur non sapendo distinguere un cartone di Tavernello da una bottiglia di Sassicaia, recito la parte del maître, vantandomi di avere un’innata capacità di critica enologica grazie al mio sangue italiano. Per fortuna è difficile incontrare qualche americano conoscitore di vino pronto a smascherarmi, sono troppo impegnati a bere birra.
Un carro pieno di dollari attaccati con la spillatrice attraversa le strade del quartiere: raccoglie le donazioni al santo che andranno a finire misteriosamente da qualche parte ( la trasparenza non è mai stata un nostro forte).
C’è aria di festa, la musica è ovunque. Allegria, sorrisi, abbracci. Questa è l’Italia che voglio esportare. E siccome conosciamo bene il perdono, rinuncio ai miei intenti di evangelizzazione gastronomica e mi unisco al divertimento.
Alla fine capisco che quello che vogliono vendere non sono i prodotti reali del nostro paese, ma solamente concetti italiani rielaborati per venire incontro ai gusti americani, ovvero più zuccheri, più proteine, più calorie. Hanno provato a fare gli italiani e hanno fallito.
D’altra parte bisogna solo ringraziarli: adesso nel mondo l’italiano grassottello mangiatore di pasta è stato scalzato dall’americano oversize divoratore di ciambelle.
Anche se a dire la verità, alcuni membri della comunità italo-americana che ho conosciuto qui hanno provato in tutti i modi a mantenere intatto lo stereotipo dell’emigrante: capelli scuri, sovrappeso, con i baffi e un inglese dall’accento “funny”. Un misto tra Pavarotti e SuperMario. Come li ho conosciuti? Questa è un’altra storia, una fiaba tutta italiana. State sintonizzati.
5 – Mangiarsi gli stereotipi: tu vuò fà l’italiano?
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