“Deve essere stato bello lavorare al Ministero!” Questa è stata la frase più ricorrente degli ultimi giorni. Bello. Una parola così soggettiva, così ambigua, così vaga. Un caleidoscopio di significati che spesso non definisce niente.
Avrei potuto rispondere con un sorriso finto, “sì, è stato bello”, e vedere la rassicurazione negli occhi dell’interlocutore di fronte a una risposta aspettata e scontata. Avrei potuto, ma sarebbe stata una sporca bugia.
È stato faticoso, struggente, dilaniante, mentalmente ed emotivamente massacrante. Il fallimento non contemplato. Ogni piccolo errore, ogni parola sbagliata, ogni email scritta frettolosamente poteva avere conseguenze devastanti. Non su di me, ma su una famiglia allargata, decisamente turbolenta, fatta di studenti, insegnanti, ricercatori.
E’ incredibile la resilienza del corpo umano, si adatta velocemente ai nuovi stimoli e alle nuove necessità: dormire poche ore, prendere decisioni importanti in millisecondi, prestare attenzione a ogni parola, rimanere sempre concentrato, non mostrare debolezze. Ritmi frenetici, lontani dallo stereotipo del politico incollato alla poltrona, impegnato a tessere clientele piuttosto che soluzioni.
La sensazione perenne di avere “quella specie di ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico”, come diceva il celebre film di Virzì. Gli impegni, le carte da studiare, i documenti da scrivere, le persone da ricontattare: un elenco senza fine, senza fondo, che ti privavano anche di quella piacevole sensazione di sollievo quando con la penna cancelli una riga dall’elenco delle cose da fare.
Leggere i giornali ogni mattina è stato come correre dopo un acquazzone: dovevi stare attento a evitare le pozzanghere di fango, altrimenti correvi il serio rischio di impanatanarti e di portare la morchia lungo tutto il percorso.
“Calunniate, calunniate, qualcosa resterà” diceva il filosofo inglese Francis Bacon. Costruisci qualcosa di positivo e sarai ignorato. Prova ad inciampare e la tua caduta sarà in mondovisione. Non importa se poi la caduta è vera o finta, l’importante è il commento, la battuta, il ritornello “io l’avevo detto”. Un esercito di Nelson Muntz, il bullo dei Simpsons, che con la voce stridula e il dito puntato ripetono con sarcasmo e derisione “AH AH!”.
Se corri sei troppo veloce, se rifletti sei troppo lento. In ogni caso le bacchettate sulle nocche sono garantite.
La sede del Ministero si trova nello stimolante quartiere di Trastevere, ricco di diversità e vibrante dinamismo, e il suo palazzo bianco trasmette una sensazione di maestosità e imponenza, che incuterebbe suggestione a chiunque, figurarsi a chi è stato chiamato a gestire le politiche che vengono fatte al suo interno.
Governare la scuola farebbe tremare chiunque. Non solo i polsi, ma tutto il corpo. Come potrebbe essere altrimenti? 8 milioni di studenti, il più grande datore di lavoro nazionale (più di un milione tra insegnanti, personale ATA, funzionari) uniti sotto un’unica parola che campeggia sul muro dell’ufficio del Ministro: EDUCARE, dal latino e-ducere: “tirar fuori ciò che sta dentro”.
Ma tremare non farebbe altro che danneggiare le già fragili scuole, al collasso strutturale e emotivo.
E allora ti destreggi tra gli sputi, alimentati da anni di totale disinteresse, e rispondi alla centesima chiamata e ascolti quel nuovo problema, l’ennesimo, quando saprai già che dovrai fare una scelta di priorità, data la vastità di problemi così inversamente proporzionale alle risorse e al personale messo in campo.
C’è mancanza di attenzione sull’educazione, d’altra parte perché dovrebbe interessare? Soldi e gossip stanno da altre parti. Sì, ci sono gli slogan, ma con quelli non si costruiscono le scuole, non si pagano gli insegnanti, non si finanzia la ricerca.
“La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.” cantava De Gregori. Ma per non offendere nessuno occorre tempo, sudore e pazienza: sindacati dalle sigle più assurde, consulte, associazioni, deputati, senatori, dirigenti di partito, rettori, presidenti, comitati, presidi, ricorsisti, controricorsisti. Tutti che vogliono essere ascoltati, tutti con la presunzione di essere seduti dalla parte giusta della “storia”. Un “prato di aghi” che a volte stimola, a volte pungola.
Il filosofo tedesco Shopenauer diceva “Chi è amico di tutti non è amico di nessuno.”
E noi gli amici li abbiamo cercati anche altrove, soprattutto tra gli studenti, tra i ricercatori, tra gli insegnanti, i primi destinatari delle nostre azioni costruite in quel palazzo così imponente situato in Viale Trastevere.
E cercando amici fuori ti confronti per forza con il mondo reale, perché solo attraverso la conoscenza si sviluppa l’empatia. E scopri che non è meglio, anzi. Scopri l’odio, il rancore, l’avversione, l’ostilità. Non tanto verso l’istituzione che rappresenti, ma verso proprio tutto ciò che è “politica”.
Ricordo ancora quando sono uscito un pomeriggio da Palazzo Chigi e una signora dall’età avanzata, distinta, che aspettava qualcuno sul marciapiede, mi apostrofò con queste parole “ Ecco, un altro che ci ruba i soldi, con l’abito costoso e lo stipendio da ventimila euro!”.
A parte che l’abito l’avevo comprato agli ultimi saldi da ZARA e che il mio stipendio non si avvicinava nemmeno lontanamente alla cifra sparata, quello che mi colpì fu l’accusa di essere un ladro. Accomunato a uno dei tanti protagonisti tragicomici degli ultimi anni, a chi si è fatto rimborsare le mutande verdi, a chi ha comprato un fuoristrada con i soldi pubblici , a chi ha ricevuto grandi tangenti per piccoli appalti. Proprio io, che avevo rinunciato agli affetti, che avevo dovuto cancellare ogni sensibilità, che mi ero negato la gioia del mare, del sole, di una breve vacanza. Io che mi credevo un supereroe dei fumetti, ero invece visto come il più spietato dei villani. Invece di essere Batman, ero il Pinguino.
Per questo devi lavorare il doppio, se non il triplo, per conquistarti un briciolo di credibilità, per essere ammessi a parlare “al pari “ con gli altri, per nobilitare un rospo brutto e gracchiante come è la politica adesso.
E magari nonostante tutti gli sforzi, il dolore, le emozioni, le sofferenze, potrebbe non bastare, potrebbe non essere sufficiente per riconoscere il lavoro che hai fatto. It’s politics, stupid.
Allora hai davanti due strade: rinchiuderti nel rancore, farti sopraffare dal vuoto, sperare nel fallimento altrui.
Oppure puoi trovare nuova forza ricordando perché hai corso con il cuore in gola, ingoiando bile amara, evitando gli sputi e le pozzanghere di fango. C’è un momento che voglio condividere con voi, che mi fa sorridere ogni volta che mi torna in mente: durante una delle frequenti visite nelle scuole, il mio sguardo si fermò su uno striscione. C’era scritto questo: “Occorre una scossa forte. Non una rivoluzione,che spesso conduce a destini incerti, ma una metamorfosi. Sogno un’Italia che sia consapevole dell’importanza dell’istruzione come fattore propulsivo per la mobilità sociale, per la coesione territoriale, per la promozione della cultura e della tecnica, in modo sostenibile e con la valorizzazione del nostro patrimonio paesaggistico, culturale e artistico, che possa portare a un nuovo “rinascimento”.”
Erano parole che avevo scritto per il Ministro e qualcuno le aveva trovate così interessanti da farne un poster e appenderlo nelle stanze di un’aula scolastica, proprio lì dove si costruisce il futuro. Magari avrebbe ispirato qualcuno, magari sarebbe stato tolto il giorno dopo. Chissà, non lo saprò mai. Ma per me quell’attimo ha significato molto, mi ha fatto capire il motivo di quello che stavo facendo, la necessità di non perdere di vista per chi stavo veramente lavorando. Non per il pubblico pagante, ma per chi stava fuori: quella maggioranza silenziosa che non mi avrebbe mai chiamato sul cellulare, che non avrebbe mai scritto su un giornale, che non sarebbe mai apparsa in televisione.
E’ stato bello lavorare al MIUR? No, per niente, ma ne è valsa la pena. Anche solo per quell’attimo, il tempo di un battito di mani, che però ha dato un senso alla mia vita.
10 mesi di Miur: una corsa nel fango
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